domenica 9 settembre 2012

I CAMPIONI NASCONO ALL'ARIA APERTA


La società occidentale sta cambiando continuamente e repentinamente. La giornata “tipo” del bambino di oggi è diversa da quella del suo coetaneo di venti, quindici, dieci anni fa. Le caratteristiche principali di questo cambiamento riguardano le situazioni che egli vive: gli spazi liberi utilizzabili per giocare sono sempre di meno ed il tempo a sua disposizione viene speso in prevalenza per attività nelle quali il movimento è una componente marginale. Questa purtroppo è una costante della maggior parte degli ambienti da lui vissuti, sia nelle ore trascorse a scuola che in quelle appartenenti al cosiddetto tempo libero.




Il futuro del Calcio italiano passa dalle Scuole.
L’ambiente urbano è ormai imbottito di traffico e malvivenza, tanto che i genitori non si fidano a lasciar giocare i bambini per strada.

Lo sviluppo delle tecnologie d’appartamento, come il personal computer e la play station, inoltre, sembrano invitarli a vivere quasi solo tra le mura domestiche. Internet e i telefoni cellulari stanno modificando fortemente il modo con il quale si relazionano tra di loro.

Questi cambiamenti si ripercuotono sulla capacità di rapportarsi con l’ambiente, da un lato, e con le persone, dall’altro.

La prima conseguenza è quella di una crescente fragilità strutturale, perché meno ci si muove e meno il proprio corpo si adatta a farlo, rischiando di infortunarsi al mutare delle situazioni esterne. Non solo. Muoversi poco e male nei primi anni di vita comporta dei problemi nella formazione anatomica del cervello.

Alla nascita, infatti, il tessuto nervoso non è formato, ma semplicemente “abbozzato”, grazie alla presenza di un certo numero di neuroni. Quei neuroni necessitano però di stimoli quotidiani provenienti dall’esterno per rafforzare i contatti tra loro sia in quantità che in qualità. Un cervello che cresce e si forma in un bambino che si muove poco, quindi, sarà il cervello di un adulto limitato, non solo nelle funzioni motorie ma in tutta la sfera cognitiva.

Ecco perché la fragilità delle strutture scheletriche, muscolari, tessutali e soprattutto nervose va prevenuta e l’unico modo per farlo è garantire al bambino nei primi anni di vita un elevato numero di esperienze, attraverso l’utilizzo di tutte le vie predisposte a ricevere informazioni dall’ambiente: quelle visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile… ma anche e soprattutto quelle vestibolari e cinestesiche, in grado di dare informazioni relative all’equilibrio e alla posizione del proprio corpo nello spazio. In appartamento o seduti ad un tavolo queste vie vengono utilizzate solo in minima parte e le risposte motorie non possono che essere poche e scadenti.

Tra le mura domestiche, inoltre, si incontrano pochi coetanei.

I bambini di oggi parlano sempre di meno ed invece si rapportano con gli altri digitando e chattando. L’effetto di tutto questo è una crescente solitudine, sommata ad una diminuzione del dialogo, ad una modifica dei processi utilizzati per comunicare, all’uso di un linguaggio sempre più povero.

Lo sviluppo cognitivo del bambino passa attraverso il rapporto con l’ambiente e quello con gli altri e quindi i bambini del prossimo futuro rischiano di

non sfruttare appieno le proprie potenzialità. La carenza di confronti con sé stessi (muovendosi) e con gli altri (parlando) forse non comprometterà l’intelligenza, ma sicuramente influirà negativamente su autocontrollo e fiducia in sé stessi. Parafrasando una nota pubblicità, si potrebbe ricordare che “l’intelligenza è nulla senza controllo”.

La maggior parte del tempo, però, i bambini lo trascorrono a scuola.

L’inadeguatezza dell’ambiente urbano alle loro necessità, quindi, potrebbe in parte essere compensata da un’ideazione dei contenuti e degli spazi in ambito scolastico capace di garantirgli quel movimento che il resto del mondo ormai gli proibisce.

Se la finalità della scuola è quella di educare e formare i cittadini del futuro, come può non avere negli obiettivi principali quello di permettere alla potenzialità cognitiva di esprimersi nella sua interezza?

Il sistema scolastico attuale, pur riconoscendo teoricamente al movimento la stessa dignità delle altre materie, lo porta, in pratica, ad avere un ruolo marginale nel percorso formativo dei giovani.

Le cause sono principalmente due: il modo con il quale vengono formati gli insegnanti (percorso magistrale) non sempre utilizza il giusto approccio nei confronti dell’importanza del movimento umano, non considerandolo preponderante per un equilibrata attuazione dei processi cognitivi ma relegandolo a banale elemento ludico, utile quasi esclusivamente a far riposare il cervello tra un’attività cognitiva e l’altra; le strutture, inoltre, a livello nazionale sono molte volte inadeguate per permettere a chi di dovere di proporre nel migliore dei modi l’attività motoria.

Di conseguenza al primo problema si hanno insegnanti che non danno il giusto peso all’attività motoria, oppure che, pur intuendone
l’importanza, si trovano privi degli strumenti indispensabili per poterla proporre correttamente e quindi “senza fare danni”.

Dalla mancanza di strutture adeguate, invece, consegue una vera e propria impossibilità a far muovere i bambini. Il tutto in una programmazione che riserva al movimento solo qualche briciola dell’orario settimanale. Si pensi che l’educazione fisica non è prevista negli asili nido, mentre nella scuola dell’infanzia e in quella primaria è lasciata alla buona volontà degli insegnanti, non più di un’ora a settimana. In alcuni casi sono i genitori ad accollarsi la spesa di qualche integrazione, chiamando ad intervenire professionisti extrascolastici. Un insegnante di educazione fisica vero e proprio compare solo nella scuola secondaria e non ha a disposizione più di cento minuti alla settimana. A dieci anni, però, lo sviluppo motorio del bambino è ormai in gran parte compromesso, tanto che risulterà sempre più difficile intervenire per migliorarlo in futuro.

Ogni settimana, inoltre, viviamo centosessantotto ore.

Anche se il bambino ne dormisse la metà, gliene rimarrebbero ottantaquattro da trascorrere sveglio. E praticare attività fisica nella scuola secondaria per due ore alla settimana significa dedicare all’educazione motoria un tempo irrisorio rispetto al totale delle ore a disposizione. In realtà il movimento dovrebbe essere tanto e di qualità. Nella necessità di ridurlo, si dovrebbe intervenire sugli anni successivi a quelli dell’infanzia, mentre attualmente avviene proprio il contrario. E’ disarmante che sia proprio la fascia d’età 0-6 anni quella più scoperta dal punto di vista motorio, visto che si tratta del periodo più importante nello sviluppo del bambino.A tutto questo si aggiunge una “tendenza generale” da parte di componenti esterni alla scuola (genitori e mass-media) ad accelerare i tempi, bruciando le tappe. Così già agli asili nido i bambini sono chiamati a compilare schede, a sedersi al tavolo, ad allontanarsi dal loro istinto di muoversi e giocare usando il proprio corpo, per iniziare il prima possibile a sviluppare solo alcune
delle loro facoltà mentali. Alla scuola dell’infanzia succede la stessa cosa, tanto che la maggior parte di loro arriva alla scuola primaria già in grado di leggere e scrivere. Da questa “corsa contro il tempo”, però, ne esce sconfitto soprattutto il bambino, che vede privilegiare a torto solo alcuni aspetti del suo percorso evolutivo, a scapito, purtroppo, di quelli più importanti.

L’unica soluzione possibile sembrerebbe essere quella di una revisione radicale del sistema scolastico nazionale. I bambini dovrebbero partire dall’esperienza, dal gioco. Da li dovrebbero scaturire quegli stati di necessità che permettano poi di approfondire sui libri le varie materie. Dal giardino, dal campo giochi, dalla palestra dovrebbero nascere i presupposti della curiosità e del bisogno di conoscenza. Seguendo l’orientamento attuale, invece, l’educazione fisica troverà sempre meno spazio nelle scuole. I bambini saranno sempre prima e sempre più in fretta indottrinati,
informatizzati, omologati.

Le strutture degli uomini occidentali saranno, conseguentemente, sempre meno adatte a muoversi e tutte quelle attività che richiedono un elevato contributo motorio ne risentiranno. I lavori fisicamente più impegnativi, come quelli edili o agricoli, verranno probabilmente svolti da uomini nati in Africa, in Asia ed in Sud America, cresciuti in un ambiente stimolante e non inibente.

Lo sport, che dovrebbe rappresentare l’esaltazione del movimento umano, subirà un cambiamento simile, vedendo primeggiare sempre più gli atleti provenienti da quegli stessi Paesi. E’ solo una questione di tempo: quando i vantaggi ambientali saranno accompagnati da un aumento di cultura sportiva, il gioco sarà fatto.

Troppe volte si è data una spiegazione di natura “genetica” alla grande abilità dei brasiliani di giocare a calcio o dei cubani di giocare a pallavolo. La componente genetica è fondamentale nella formazione di un talento sportivo, ma non si dimentichi che nella formazione e nello sviluppo del sistema nervoso, l’apporto genetico è relativo e soprattutto è condizionato fortemente dagli input provenienti dall’ambiente esterno nei primi anni di vita.

Quindi è difficile che senza una base genetica un bambino diventi un talento, ma è altrettanto difficile che con una base genetica sufficiente, un bambino possa diventare tale senza le sollecitazioni adeguate provenienti dal mondo in cui cresce e vive.

Da anni si sprecano i dibattiti su “come” allenare un atleta, su quanto una buona metodologia d’allenamento possa incrementare le possibilità che un individuo geneticamente dotato arrivi a fare sport ad altissimo livello. Il calcio italiano sta perdendo sempre più in “qualità”. Più che in serie A, dove la presenza di giocatori stranieri in parte compensa tale lacuna, lo si può notare nei campionati professionistici minori, dove è palese l’impoverimento tecnico generale. Visto che la predisposizione genetica degli italiani a giocare a calcio non dovrebbe essere mutata di molto da vent’anni a questa parte, si finisce spesso con il dare la colpa alla scuola calcistica. In Italia si sarebbe prediletto per anni (ed è vero) l’insegnamento della tattica e l’irrobustimento fisico dei giovani calciatori a scapito della cura della tecnica. In Italia, in pratica, si sarebbe preteso di allenare calcio senza proporre calcio.

Una pretesa che, alla luce delle poche ore dedicate dai bambini al gioco del calcio, ha preso le sembianze di una presunzione.

Spesso si prende ad esempio la scuola brasiliana. Bene: in Brasile innanzitutto si gioca a calcio. Non c’è un metodo scientifico, una via studiata a tavolino per “costruire” talenti; ci sono la strada, il gioco libero, la creatività. E nella strada c’è una componente fondamentale troppo spesso trascurata nelle analisi intellettuali occidentali: la quantità. Perché è indiscutibile che meglio un atleta lavora e più è facile che si migliori, ma se quella qualità è concentrata in un numero di ore irrisorio, rischia di diventare inutile.

La strada brasiliana, senza allenatori, preparatori atletici, macchine di potenziamento muscolare, elettrostimolatori, è in grado di aiutare gli elementi geneticamente predisposti ad eccellere nel gioco del calcio molto di più rispetto alle alchimie tecnologiche occidentali, semplicemente perché il tempo dedicato al gioco da parte dei bambini brasiliani è decisamente superiore rispetto a quello dedicato dai nostri bambini. Gli allenatori sportivi dovrebbero cercare di intervenire sulla motricità dei loro allievi in modo da aiutarli a migliorare, favorendo confronti utili. Quegli stessi confronti che il gioco spontaneo permetterebbe di compiere in tempi più dilatati. I vantaggi derivanti dalla presenza di un allenatore però, passano attraverso due condizioni: il livello professionale dell’allenatore e il numero delle ore comunque dedicato alla disciplina. Quando la differenza tra le ore dedicate alla disciplina sportiva libera da un bambino brasiliano e quelle dedicate alla disciplina sportiva guidata da un bambino occidentale è troppo marcata a svantaggio del secondo, gli accorgimenti metodologici diventano irrilevanti.

I talenti sportivi occidentali diminuiranno sempre più, fino a quando il modello di vita non cambierà, fino a quando non verranno restituiti ai bambini quegli spazi e quei momenti ludici indispensabili per il loro sviluppo. Solo così si potrà invertire la tendenza, permettendo di trarre vantaggi a tutti, non solo agli sportivi.

Perché un’infanzia in movimento garantirebbe uno sviluppo più equilibrato anche a chi successivamente decidesse di vivere seduto ad una scrivania. Nello sviluppo cognitivo, come visto. E nel gettare le basi per una salute più duratura. In tal senso vanno sensibilizzate le famiglie. In questa direzione, soprattutto, deve indirizzarsi il dibattito sulla scuola. Per ottenere risultati concreti va per forza di cose riconsiderata la valenza educativa dell’attività motoria. Nei fatti oltre che nelle parole, aumentando drasticamente il numero delle ore settimanali da dedicare al movimento.

L’obiettivo finale è quello di ritornare ad una società più vivibile ed equilibrata. Una società che permetta di nuovo ai bambini di giocare all’aria aperta. E questo può avvenire solo dopo aver cambiato la scuola, il modo con il quale si formano i bambini, gli stati di necessità che in loro si inducono. Saranno loro, poi, a cambiare la società in cui si troveranno, perché la riterranno inadeguata.

Saranno loro che restituiranno alle generazioni future quell’ambiente vivibile che noi abbiamo perduto.

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